Storia e tradizione

Il forno dei ricordi: la storia della ‘pitilla’

Il forno dei ricordi: la storia della ‘pitilla’

Viaggiando tra luoghi e tradizioni di questa terra così variegata che è la nostra Puglia, il “tacco di Italia” che unisce molteplici popoli e usanze, estendendosi dal Promontorio del Gargano alla terra baciata dal mare di Santa Maria di Leuca, si rischia di imbattersi in racconti ‘del cuore’, ricamati sui ricordi.

È questo il caso di un articolo estratto da “Piazza Perotti”, un blog dedicato a una comunità del sud Italia, quella di Castro in provincia di Lecce, che riportiamo parzialmente. Protagonisti sono, appunto, i ricordi e uno dei prodotti tradizionali del Salento, la ‘pitilla’, che ci accompagna in decenni addietro, a spasso nel tempo, alla (ri)scoperta di usi e costumi ormai perlopiù dimenticati.

«Figlio e nipote di furnare (fornaie), che ha passato più di una notte da bambino a dormire sulle sarcine (fascine di rami) o nelle matthre (madie), avvolto dai sacchi vuoti della farina per non essere lasciato solo a casa, e fatto tante colazioni a pirille calde, quando mi chiedono cos’è una pirilla ci resto sempre male.

In effetti non è semplice saperlo, perché la pirilla in fondo è solo farina, lievito e un po’ d’acqua, ma non è il pane. È il resto di quello che non si voleva (o poteva) scartare dal complesso processo della panificazione. Un processo lunghissimo che prima della meccanizzazione dell’agricoltura (piuttosto recente nel Salento) partiva dalle sementi dell’anno prima, dalle arature coi cavalli, poi le semine, la falciatura a mano, la trebbiatura con le bestie sulle aie e infine con la macinazione per la farina.

Ogni famiglia, se poteva, produceva grano per consumo proprio e il poco di più si vendeva o si scambiava.

Con la farina macinata fresca, anche un paio di quintali per volta a seconda della capienza del forno, una famiglia si organizzava per panificare la scorta di pane per uno due mesi in avanti. Il pane fresco, i filoni, le rosette, i panini, arrivarono solo nel dopoguerra e prima di allora bisognava congegnarsi a produrre il viatico per la tavola e le colazioni nei campi senza la comodità dell’acquisto quotidiano.

Chi poteva, in genere benestanti che avevano il comodo del forno di proprietà, panificava poco e spesso avendo sempre pane fresco; chi invece non poteva affittava il forno pubblico di cui in genere ogni centro salentino disponeva a sufficienza e si ingegnava.

Il forno pubblico, in genere un unico ampio vano con un forno in pietra sul fondo, era prenotato per tempo. I maschi si incaricavano di macinare il grano e portarlo nel pomeriggio tardi al forno; per l’occasione la farina era contenuta in sacchi ancora più puliti e pregiati di quelli per il grano: erano quasi sacri e ogni volta lavati.

Tra chi panificava prima e chi il giorno dopo, ci si scambiava le solite cortesie: si lasciava il forno pulito, gli attrezzi in ordine e, soprattutto, il lievito per la fermentazione del pane. Il lievito fresco vero e proprio doveva essere acquistato e conservato al fresco ed era cosa complicata, per cui chi lasciava il forno teneva da parte per chi entrava un po’ di pane fermentato (non cotto) che, aggiunto all’impasto della farina con l’acqua, facesse da nuovo lievito alla fermentazione. Si chiama criscente (crescente) e l’effetto più visibile era proprio quello di far crescere il volume degli impasti nel giro di un paio d’ore. L’effetto era notevole.

Il forno era sempre dotato di una camera di cottura più o meno grande, sempre a pianta circolare con volta a cupola ribassata, con fondo e volta in genere in pietra leccese. 

Cuocere era un’arte. Bisognava conoscere le caratteristiche termiche di quel forno in particolare. Se teneva il calore dei giorni prima, se bruciava più di volta che di fondo, se raffreddava (“calava”) troppo con l’infornata fresca. Sbagliare la cottura non era permesso. Chi conosceva i segreti dei tempi, degli impasti e del forno, aveva un mestiere sicuro e, nonostante l’orario di lavoro infame, alla fine portava a casa un po’ di lire e pane fresco da mangiare.

La quota della volta della camera di cottura era in genere molto più bassa dell’ambiente in cui era ricavato, per cui al di sopra del forno di cottura principale era ricavato un secondo fornello (forneddhru) non alimentato, se non dal calore del forno principale sottostante. Era una camera chiusa con porta e serratura molto calda, i venditori di noccioline della zona ci lasciavano sparse per terra le arachidi e le noccioline per ravvivare la prima tostatura e tirarne via un po’ di umidità in occasione di qualche nuova festa. Pure ci lasciavano legumi, fave, cereali, tutto quanto avesse bisogno di una nuova seccatura.

La panificazione si svolgeva rigorosamente a porta chiusa ed era cosa per donne. Il maschio era tollerato per spostare i sacchi pesanti, le matthre e infilare le fascine nel forno. Le fascine, lasciate nel pomeriggio fuori dalla porta sulla strada, erano portate all’interno per evitare sia problemi con le piogge sia per non aprire e chiudere la porta dell’ambiente di lavoro. Ne poteva risentire la fermentazione, la temperatura del forno e la salute dei presenti. Si evitava pure che il chiacchiericcio si spargesse per la strada.

I tempi erano lunghissimi, quasi un giorno intero. Dal trasporto al forno della farina e della legna al trasporto a casa del pane passavano quasi 24 ore. Si producevano più tipi di pane: una quota di pane fresco per il consumo massimo di una o due settimane e il resto di pane secco (friseddhre) che durava anche mesi.

La quota più grossa di farina era generalmente destinata al pane secco. Per questo scopo i pezzi erano delle lunghe losanghe alte sei sette centimetri, lunghe trenta e spesse due. Si passavano alla fornaia che con le dita ne schiacciava l’asse più lungo e le arrotolava ad involtino. Queste rosette erano poste una affianco alle altre sulle tavole su un letto di farina per non attaccarsi sul fondo. 

Quando il pane era tutto pezzato e gli impasti dei pani speciali (tra cui la ‘pitilla’, n.d.r.) quasi pronti, la fornaia si alzava dalla sedia del suo tavolino e prendeva il comando del forno. Nonostante fosse un gesto ripetuto per anni per il forno si spargeva una evidente tensione. Mentre si dava una rassettata e si cacciava via quanto non servisse più, la fornaia controllava nervosamente la temperatura del forno. Per anni, anche per me, è stato un mistero. Ricordo mia nonna o mia madre comandare un tot di ricarica di legna in più guardando il colore della pietra leccese delle pareti. Bruciare o non cucinare il pane era una grossa responsabilità. Per questo ogni forno aveva la sua fornaia e viceversa.

Negli ultimi anni, quando ormai era chiaro che quel mondo andava ormai sparendo, mia madre cominciò a confidare qualche malizia. Una che mi ricordo era come sapere se il fondo del forno avesse raggiunto una data temperatura. Quando ci si accingeva a pulire per bene il fondo del forno dalle ceneri per poggiare sul pulito il pane si dovevano vedere le scintille! Si utilizzava uno scopone con attaccati rami di alloro o di fracilische (più fini), continuamente bagnato perché altrimenti prendeva fuoco. Una volta pulita la chianca si notavano effettivamente le scintille. Altro non erano che il minuscolo pulviscolo del legno che, poggiandosi sulla chianca, andava in autocombustione. Se la temperatura era raggiunta il pulviscolo si infiammava producendo un caratteristico scintillio. Altrimenti si ordinava una opportuna ricarica di legna.

Finito il lavoro, si lavavano le madie e i limmi raccogliendo dai fondi e dalle pareti una pastina di farina lievitata, di una consistenza appena più dura della pastina delle crepes, la si faceva scolare con la mano sulle pale dell’infornatura e si colavano sulla chianca del forno. L’impasto molto liquido si schiacciava e si arrotondava perfettamente da solo e si cucinava, essendo sottilissima, di tutta l’infornata, per prima.

Chiusa la bocca del forno con la pesante pacenzia (pazienza) in ferro, ormai a notte tarda, ci si rilassava. Molte donne tornavano a casa a dormire. Ma prima si tiravano dal forno le pirille già cotte e, con o senza companatico, si mangiavano perché ormai c’era appetito. Pirille con le olive, o tagliate un due e riempite di tutto, vino, saluti e buonanotte.

[…]

Pirilla è un mondo che ormai non c’è più e che non tornerà più.

E ventinove anni fa, quando ancora l’ultimo forno pubblico in via Diaz fumava ogni notte, la paura della scomparsa di quel mondo spinse gli ultimi fornai a fare una infornata di pirille e regalarle su Piazza San Giorgio.

Da ventinove anni si ricorda un mondo che in poche parole non è possibile spiegare. Perché la pirilla non è un tipo di pane, e, se pure, in vita sua non è mai uscito da un forno.

Non la troverete nelle panetterie e se ve ne faranno mai omaggio è solo per chiedere una preghiera ai cari che non ci sono più.

La pirilla, col suo buffo nome, è la nostra passata giovinezza e spiegarla fa sempre un po’ male.»

L’articolo completo è disponibile sul blog del sito web “Piazza Perotti”, ve ne consigliamo la lettura integrale.

Se qualcuno desidera condividere altre storie da raccontare o segnalare, saremo felicissimi di ascoltarle. Tra ricordi, sapori ed emozioni che sanno così ben raccontare la nostra Puglia.


Fonte articolo e immagine: http://www.micello.it/pirilla-whats-pirilla-2/