Storia e tradizione

Nella terra dei lampascioni: un viaggio in puglia tra storia, tradizione e ricette

Copertina lambascioni

L’uso alimentare e curativo del lambascione è antico e le sue ottime proprietà erano conosciute dagli Egizi, dai Greci e da tutti gli altri popoli dell’area mediterranea dell’Asia minore. L’etimo è tradotto dal greco e si ritrova in un trattato popolare (Prontuario) scritto da Oribàsio di Pergamo (325-403), medico e botanico bizantino; la traduzione latina dice: “lampadiones nutriveles sunt … bulbus lampagionis inflactiones faciunt”, cioè “i lambascioni sono molto nutrienti ... i bulbi di lambascioni generano la flatulenza”.

Inoltre, secondo Imperio (1990), il termine lampascione deriva dal basso latino lampadjonem e per variazione del “dj” in “sc” si è giunti al nome odierno. Altra interpretazione è offerta dal glottologo Vincenzo Valente di Molfetta (BA), secondo il quale l’odierno lampascione deriva dal latino medievale lampadio-onis. Infine, lampadion nell’antichità classica era un tipo di acconciatura femminile in cui i capelli legati a ciuffo da una serie di nastri suggerivano l’immagine della fiamma (donde il nome).

A partire dal Rinascimento, il lambascione è stato oggetto di discussioni fra molti studiosi tra cui: Mattioli, Leonhard, Fuchs, Anguillara, Forsskal, Sibthorp, Fraas e De Heldreich, che ne esaltavano le proprietà nutritive e curative, ritenendolo anche afrodisiaco. De Salis Marschlins (1762-1818), naturalista svizzero, nel suo viaggio attraverso le province del Regno di Napoli, effettuato nel 1789, riferisce che il lambascione era presente sulle isole Cheradi e che l’uso di mangiarlo bollito in insalata era comune nella provincia di Taranto. 

Il lampascione ("M. comosum”) è inoltre segnalato in Italia da Aldrovandi (1551), lo stesso Mattioli (1554), Cesalpino (1563), Durante (1585), Castelli (1640) e Zannichelli (1726).

Ma questo prodotto delle terre di Puglia non trova celebrazione esclusivamente nei reperti storici; numerosi sono infatti i detti e i modi di dire locali, tramandati di generazione in generazione, che hanno come protagonista il lampascione.

Nel volume “Mola di Bari. Colori suoni memorie di Puglia”, Michele Calabrese riporta il seguente proverbio: “U bambasciúle ce n’u zappe na’ nasce” (trad: il lambascione se non lo coltivi non cresce), che esprime il concetto che se vuoi la ricchezza devi lavorare e sacrificarti.

Altri adagi dialettali hanno origine dalla perdita di tempo e la fatica occorrente per scavare il bulbo, che si può trovare anche a 30 cm di profondità, tra i quali: “ce ué u lambasciàune, te l’a dà cavé” o “p’acchjà u cambasciòle ada scava affunne” i quali si traducono con “se vuoi il lambascione, te lo devi scavare” (se vuoi qualcosa di buono devi faticare per averla). Inoltre c’è il detto attribuito ad una persona di corporatura esile, vanitosa che cita “si nu pampasciune nei ulia nu mese cu ti sprecanu”, ovvero “Se fossi lambascione ci vorrebbe un mese per dissotterrarti”.

Ancora, in alcune città della provincia di Bari il termine lambascione, attribuito ad una persona, suona come insulto, perché sta a significare “di poco spirito, stupida, tarda a comprendere”. Nel Salento, invece, lo stesso termine viene usato per indicare un uomo in gamba, che non può essere preso in giro facilmente; mentre una persona noiosa viene apostrofata come un “rompitore te pampasciuni”. Inoltre, sempre nel Salento, ai primi del Novecento era nota una figura, che proprio dal lambascione prese il nome. Si tratta di un uomo vestito con il frac e la paglietta, bonario, allegro, vanesio e diseredato ed indicato come Don Giulio Pampasciuli. A tal proposito, per la raccolta dei lambascioni, proprio in alcuni paesi del Salento ancora oggi viene utilizzato il cosiddetto zappuddru o zappone, piccone tozzo, sagomato da un lato, a punta. I contadini che non possedevano terra e che si dedicavano alla raccolta di erbe, funghi e lambascioni venivano chiamati pampasciunaru.

Per quanto riguarda fiere, sagre e feste popolari, ad Acaya, frazione di Vernole (LE), il primo venerdì di marzo si celebra la sagra del pampasciulu ed anche l’immagine della Madonna Addolorata diviene la “Madonna dei pampasciuni”. In questa circostanza è tradizione offrire i bulbi preparati in “cento” modi diversi. Ad Acaya questa statua dell’Addolorata, che si trova nella chiesa madre, è anche popolarmente nota come la “Madonna dei pampasciuni” (Congedo, 1980). Inoltre, da tradizione, in alcuni paesi del Salento, il 19 marzo, nelle case le famiglie imbandiscono grandi tavolate in onore di S. Giuseppe dette le “Tavole di S. Giuseppe” e tra le diverse pietanze compaiono i lambascioni, preparati in diversi modi col significato simbolico e rituale di rappresentare il passaggio dall’inverno alla primavera. 

La documentazione storica che ha permesso l’iscrizione dei lampascioni nell’elenco dei P.A.T. di Puglia nell’anno 2019 è ricca e frutto di una fitta attività di ricerca in archivi storici e libri di cucina, che sono presentati di seguito assieme alla galleria fotografica in calce all’articolo.

Procedendo in ordine cronologico, Carlo De Cesare (1859) nel libro “Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia", nel quarto capitolo "Delle produzioni spontanee", scrive questo: «Ricco di svariate produzioni spontanee è il suolo Pugliese; ma io terrò discorso di quelle sole che per la loro utilità e per gli usi  costanti e proficui assai più giovano alle classi agricole; e ciò per la esatta esposizione degli elementi economici che io voglio descrivere, e se fia possibile anche migliorare ed aggrandire nell'interesse delle Provincie pugliesi.   Dolci e tenerissime sono le cicorie che i terreni sostanziosi e freschi producono in grandissima quantità. Da questo prodotto la femminetta ricava non solamente il cibo cotidiano per la sua famiglia; ma eziandio la sua giornata, massime in primavera quando le cicorie talliscono e formano il prediletto cibo delle classi agiate. D'uso universale per le plebi sono pure: il sevone selvaggio (souchus oleraceus); i bulbi del "Mascari camosum" detti volgarmente lambascioni; le tenere cime della fergola (ferula communis); le cimamarelle (sinapis geniculata); la ruca (diplotaxis tenuifolia); i carduncelli (carduus marianus); la ieta (beta maritima); le spine di sepe (licium europaeum); il pungilopo (ruscus aculeatus) l'ardicola (urtica dioica); i lupuli (humulus lupulus).»

F. CIRILLO in “Cenno storico della città di Cerignola”, Cerignola, Pescatore, 1914, a pagina 50 riporta questo: “Si rinvengono inoltre grandi quantità di bulbi di muscari che sono buoni per i visceri ed appartengono alla famiglia delle gigliacee il popolo li chiama lampasciuni, e da qualche anno sono esportati in America specialmente da Ascoli e da Minervino.

Grazie alla testimonianza di Cassitto (1925), sappiamo che già un secolo fa la provincia di Foggia era “terra di lambascioni”. Secondo l’autore [fig. 1], infatti, nel comune di Ascoli Satriano ne furono raccolti e venduti, con lauti guadagni, circa 30 tonnellate. La raccolta si estese successivamente nei comuni di Ortona, Foggia, Orta Nova, Castelluccio, Bovino, Troia, San Severo, Torremaggiore, Cerignola, Lesina e Apricena, tanto che nel 1924 ne furono commercializzati complessivamente circa 1.200 tonnellate. 

A metà del Novecento sono stati fatti dei tentavi di coltivazione in Puglia dal Prof. Pantanelli, che però non hanno avuto il successo sperato. Fin dall’antichità vengono attribuite a questa pianta delle virtù medicinali grazie al principio attivo amarognolo (acido comosico) in essa contenuto.

In fig. 2 si riporta un prezioso documento su questa specie: un articolo pubblicato nel 1950 da Ettore Del Salvatore sulla rivista Agricoltura Pugliese. Nel "Vocabolario botanico martinese" di Eugenio Selvaggi (1959) compare la voce "Vampascione o Pampascione", sinonimo di Moscaro, Moscarino, Cipollaccio e Giacinto col fiocco [fig. 3,4,5].

A quanto ci fa sapere Luigi Sada, storico tarantino ma barese di adozione, nel suo volume-ricettario “Cucina pugliese alla poverella” del 1991 (del quale si riporta la copertina in fig. 6), l’etimologia del termine lambascione risale al periodo medioevale (lampadio,-onis), ma, come sottolinea lo studioso, noto per aver valorizzato storicamente la tradizione gastronomica pugliese, bisogna fare molta attenzione ad usare la denominazione italiana più corretta: «(…) si chiama lambascione con la b come “babbeo”…pur se forma dialettale pugliese…». E continuando con sottile ironia, Sada aggiunge anche questo: «I settentrionali, che hanno conosciuto da pochi anni la bontà del bulbo, lo chiamano finanche “lampone”». Solo per i palati più raffinati, spiega Sada, questa cipolletta dal nome “conteso” cresce spontanea solo dalle nostre parti (Puglia), soprattutto nei terreni calcarei e rossi del subappennino dauno. È un bulbo di piccole dimensioni (tra i 4-5 cm di diametro), di colore rosso-violaceo, dal sapore un po’ amarognolo e con proprietà benefiche: emollienti e lassative. Inoltre (ci mette in guardia il nostro scrittore), bisogna far attenzione quando lo si acquista poiché esiste un bulbo somigliante, “il giacinto cigliato”, che viene venduto per autentico pur appartenendo ad un’altra specie, coltivata e meno pregiata, dal colore bianco sporco e dal sapore piuttosto dolciastro.

Il nostro ortaggio, come continua ad erudirci lo storico Pugliese, essendo molto versatile in cucina, si presta ad essere “elaborato” in svariati modi (si raccomanda di mangiarlo tutto, lasciando solo la spoglia): olio e sale (una volta cotto in acqua a fuoco lento), arrostito, al forno, o in modo ancora più prelibato, con il purè di fave bianche. Infine, per poter apprezzare tutte le peculiarità del bulbo violaceo, bisogna non dimenticare, prima di condire e servire, di schiacciarli un po’ con una forchetta, cosicché il condimento, qualunque esso sia, possa penetrare all’interno del gustoso e pregiato ortaggio in modo da esaltarne le caratteristiche assolutamente uniche. Consigli di Luigi Sada. Un autentico intenditore.

Sempre Luigi Sada (1991), nel libro “La cucina della terra di Bari” (Franco Muzzio Editore, Padova) (fig. 7), a pagina 66-67, descrive il lambascione e segnala che è questo il termine giusto piuttosto che “vampagioni” (fig. 8).

Dalle ricerche storiche condotte da D’Ambrosio (1995) risulta che nel seminario di Otranto il lambascione venne servito per cinque volte nel mese di marzo del 1756 e quattro volte nel marzo 1833, mentre nell’ospedale S. Pellegrino di Trani una volta nel mese di febbraio 1852. Nel 1857 Bruni di Barletta accennava a tre modi di consumare i bulbi: lessati e conditi con olio e aceto, fritti con farina o uova e arrostiti sotto la cenere calda. Risulta inoltre che anche al quaresimalista della cattedrale di Terlizzi nella Quaresima del 1878 siano stati serviti i lambascioni

Ma, al contrario di quanto riportato da Bruni, il lambascione è utilizzabile in numerosissime pietanze che ancora oggi si preparano in tutta la Puglia. Oltre le pietanze riconosciute come P.A.T. di Puglia (lampascioni fritti, lampascioni in agro, lampascioni sotto la cenere) riportiamo di seguito gli 88 piatti a base di lambascioni raccolte da Bianco et al. (2009):

1. A paté (Ostuni - BR). 2. A polpette (Acaya). 3. A rosa salati o dolci. 4. A rosa senza pastella (Castellana Grotte, Putignano). 5. Agnello coi lambascioni (Calabria e provincia di Bari). 6. Agnello con i lambascioni alla sannita (Campania). 7. Agnello con lambascioni e salsiccia (Basilicata). 8. Agnello e lambascioni al forno. 9. Testina di agnello, gnomerelli (involtini di frattaglie), patatine a spicchio e lambascioni. 10. Ai capperi. 11. Lambascioni al Purgatorio (Altamura e Gravina). 12. Al forno (Puglia). 13. Al guanciale (Basilicata). 14. Al pomodoro. 15. Al ragù (Lecce e provincia). 16. All’aceto (Calabria). 17. All’aquilana. 18. Alla Alla murgiana. 25. Alla pignatta. 26. Alla pizzaiola. 27. Allo strutto (Calabria). 28. Anguilla con i lambascioni (Lesina). 29. Arraganati o gratinati (Castellana Grotte). 30. Arrostiti (Puglia). 31. Arrostiti sulla brace (Apricena). 32. Arrostiti sotto la cenere (Altamura, Lecce e provincia). 33. Capretto al forno con patate e lambascioni (Puglia). 34. Castrato al forno con i lambascioni (Cisternino). 35. Coi fichi (Calabria). 36. Con baccalà (Basilicata). 37. Con bietola da orto e aceto (Acaya). 38. Con funghi e patate (Molise). 39. Con gli ossibuchi (Acaya). 40. Con la carne di maiale (Lecce e provincia). 41. Con le uova (Lecce e provincia). 42. Con olio, sale e pepe, detto “alla minervinese” ma viene preparato in numerosi comuni della Puglia tra cui Mola. 43. Confettura (Castellaneta). 44. Coniglio e lambascioni al forno (provincia di Bari e di Lecce). 45. Contorno. 46. Crudi in insalata. 47. Insalata di lambascioni con arancia e melagrana. 48. Del pastore. 49. Dorati e fritti (Volturara Appula, Carapelle, S. Ferdinando di Puglia, provincia di Bari). 50. Petto di pollo con lambascioni e peperoni cruschi (Basilicata). 51. Fave e lambascioni lessati (ncapriata a Martina Franca). 52. Fave, lambascioni lessi e patate (Turi). 53. Fave e lambascioni al forno. 54. Frattaglie di agnello, patate e lambascioni (“u rutl” a Sannicandro Garganico). 55. Frittata con lambascioni. 56. Frittata con lambascioni crudi. 57. Frittelle (Basilicata). 58. Fritti (Castellana Grotte e Putignano). 59. Fritti con pastella (Gravina). 60. Fritti con pastella al vino. 61. Grano con i lambascioni (Brindisi e provincia). 62. In agrodolce (Altamura). 63. In tortiera (San Severo). 64. Insalata (Rodi Garganico). 65. Insalata di riso con lambascioni. 66. Salsiccia in pignata e lambascioni (S. Donato di Lecce). 67. Lambascioni, bucatini e salsiccia. 68. Lambascioni conditi (Altamura e Gravina). 69. Lambascioni piccanti. 70. Lessati. 71. Marmellata. 72. Marro o cibreo e lambascioni (Putignano). 73. Mollicati. 74. Salsa di lambascioni e aglio orsino. 75. Soffritti (Lecce e provincia). 76. Sottaceto. 77. Sottolio. 78. Sottolio alla calabrese. 79. Sottolio caramellati. 80. Spezzatino di capretto e lambascioni (Vieste). 81. Stufati (Lecce e provincia). 82. Teglia di agnello (o capretto) e lambascioni (Basilicata). 83. Teglia di vitello e lambascioni. 84. Testina, involtini di agnello e lambascioni. 85. Tortelli di ricotta di pecora e lambascioni con ragù di coniglio. 86. Tortino. 87. Trifolati. 88. Zuppa.

Vogliamo infine chiudere la nostra narrazione nella “terra dei lampascioni” con la seguente simpatica poesia, scritta da Giovanni De Nora di Altamura (Ba):

I lambasciùne

Mariaròse chi lambasciùne / Nan te lasse chiù nesciùne / Quante so
bone pure cunzéte / cu séle e u paipe, appene scalléte, / chi paténe attúrne
attúrne, / arraianéte e fatte o’ furne. / Ce li vué chiù prelebéte / la da
fé fritte e ‘nduréte. / Quante te li mange come na wuotte / sinde la venté
ca t’abbçte, / ce vive po a’u mìrre, sinte l’effétte: / te spére ‘nguérpe la
schcuppétte!

I lambascioni

Mariarosa con i lambascioni / non ti lascia più nessuno /
Quanto son buoni conditi / con il sale e con il pepe, appena lessati
/ con le patate intorno intorno, / gratinati e cotti al forno. /
Se li vuoi più prelibati / devi farli fritti e indorati. / Quando li
mangi, senti che la pancia / si gonfia come una botte; / se poi bevi
il vino, senti l’effetto: / ti spara in corpo la scoppiettata!