Storia e tradizione

Storia della Carota di Tiggiano e di Sant’Ippazio

Storia della Carota di Tiggiano e di Sant’Ippazio

I prodotti della terra non sono solo elementi essenziali per la nostra sopravvivenza, ma racchiudono molteplici significati di carattere sociale, culturale, religioso, economico e politico. Essi sono a tutti gli effetti elementi culturali, prodotti sociali determinati storicamente, risultati di precisi processi attraverso i quali l’uomo si è rapportato con la natura e si iscrivono quindi pienamente nell’ambito del patrimonio culturale – e non solo materiale – di una società, veicolando significati a vari livelli.

È questo il caso della “Pestanaca giallo-viola di Sant’Ippazio”, una varietà locale di carota, coltivata quasi esclusivamente nel piccolo paese di Tiggiano, nella provincia di Lecce. La ‘Pestanaca di Sant’Ippazio’ è una varietà sopravvissuta alla scomparsa grazie al legame che da sempre ha avuto con la devozione popolare e la figura del Santo orientale di cui porta il nome. La ‘Pestanaca’ infatti è la protagonista, ab immemorabili, della fiera del 19 gennaio (festa di Sant’Ippazio) che coincide con il periodo in cui l’ortaggio arriva a maturazione. La classificazione e la nomenclatura popolare dei prodotti ortofrutticoli era di grande importanza in quanto si inseriva nel sistema di trasmissione orale delle conoscenze: molti nomi popolari di frutta e verdura, anche grazie al richiamo di celebrazioni religiose, indicavano i tempi di raccolta o di semina, contribuendo così a trasmettere conoscenze utili alla sopravvivenza.

Oltre che alla festa di Sant’Ippazio, la “Carota di Tiggiano” era ed è tutt’oggi associata alla celebrazione della Candelora a Specchia (2 febbraio) e a quella di San Biagio a Corsano (3 febbraio), tutti e due paesi vicini a quello di Tiggiano.

Sulla figura di Sant’Ippazio non si sa molto. Il suo culto fu molto diffuso nella Chiesa bizantina e giunse nell’Italia meridionale probabilmente con l’arrivo dei monaci basiliani intorno al IV sec. d. C. La caratteristica peculiare di questo Santo, è che esso è ritenuto protettore della virilità e dell’apparato genitale maschile, benefico per l’ernia inguinale, in quanto ne fu egli stesso a lungo sofferente per un tremendo calcio ricevuto nel basso ventre durante una discussione con degli eretici ariani. È proprio questa caratteristica che ha favorito l’associazione della ‘Pestanaca’ alla figura del Santo; associazione rafforzata dal fatto che insieme alla carota, durante la celebrazione, vengono vendute anche le giuggiole (sciscele). Queste ultime sono un prodotto fuori stagione, ma vengono conservate secche o caramellate appositamente per essere vendute in questa circostanza. Pestanache e sciscele rappresentano quindi chiari simboli che si associano al potere taumaturgico attribuito al Santo.

Dunque, la ‘Pestanaca’ e Sant’Ippazio si collocano entrambi all’interno di rituali legati alla fertilità: il ciclo delle celebrazioni religiose a cui è legata la ‘Pestanaca’, non solo coincide, come si è detto, con la maturazione della stessa, ma si inscrive all’interno di un periodo molto importante per il calendario contadino. Era questo un momento dell’anno delicato, nel quale anticamente si cercava di propiziare e favorire le potenze della Natura nel momento in cui queste stavano per “risvegliarsi” dalla morte apparente del periodo invernale, che precede la germogliazione e la maturazione.

A questi concetti di morte e rinascita si associano le festività di S. Ippazio, della Candelora e di San Biagio. Il simbolismo nel primo caso è forte. In primo luogo le stesse caratteristiche taumaturgiche del Santo richiamano chiaramente il concetto di fertilità, ma a riprova di ciò, durante la festa, si può osservare un rituale che ha chiare valenze apotropaiche e propiziatrici. Prima della processione, alcuni individui maschi devono riuscire a sollevare, in corsa, un palo di legno lungo sette metri, dal peso e dalle dimensioni non indifferenti. Questo palo chiamato “stannardhu” reca in cima una palla di ghisa ed un mazzo di fiori. Chi se lo aggiudica (in seguito ad un’asta popolare), avanzando in corsa con il palo in mano, deve riuscire a issarlo verso il cielo. L’impresa si compie con grande apprensione di tutta la comunità. Lo stannardhu viene condotto dalla chiesa di Sant’Ippazio alla vicina cappella dell’Assunta, di fronte alla quale termina la corsa con l’innalzamento verso il cielo o la disfatta dell’impresa. Una volta issato, il devoto porterà lo stannardhu in processione davanti alla statua del Santo, per tutto il percorso prestabilito. Dalla buona riuscita di quest’operazione si trarranno auspici sulla positività o la negatività dell’anno, la fertilità delle colture e le sorti della comunità.

Anche le feste della Candelora e di San Biagio, celebrate rispettivamente a Specchia e Corsano, sono legate a questi concetti di rinascita, di passaggio dal periodo di buio alla luce, di fine di un ciclo e inizio di un altro, di protezione dei raccolti, dell’anno morente che lascia posto al nuovo che ricomincia. Questo periodo, come si è detto, era considerato critico e delicato, come tutti i momenti di passaggio da uno status ad un altro, e quindi necessitava di particolari rituali che propiziassero e favorissero il rinnovamento della fertilità dei campi, concepita in associazione al “rinvigorimento” della potenza solare. Queste celebrazioni possono considerarsi in qualche modo sopravvivenze di manifestazioni agrarie pre-cristiane, e sono caratterizzate da un forte legame con il mondo contadino e con la sua concezione di tempo, scandito dai cicli e dai ritmi stagionali, basato sull’osservazione dei fenomeni naturali e astronomici e sul loro ripetersi ciclico.

La Candelora è una festività anticamente legata alla purificazione e a riti propiziatori della fertilità della terra. Tutt’oggi, in questo giorno, viene celebrata la Purificazione di Maria (lo stesso termine “febbraio” deriva da februus: purificare) e si benedicono le candele. Anticamente si accendevano luci e lumi, che in questa ricorrenza simboleggiavano la luce che ricomincia a prevalere sul buio della stagione invernale, e che si riflette nell’allungamento delle giornate. La Candelora segnava infatti la fine dell’inverno: “Alla Candelora de l’inverno simo fora”: da Nord a Sud sono moltissimi i detti popolari che, pur nelle differenze, indicano la Candelora come punto di passaggio dalla brutta alla bella stagione.

San Biagio è legato al mondo contadino in quanto considerato protettore degli animali, delle messi e dei cereali. Viene festeggiato il 3 febbraio, un giorno dopo la Candelora. Anche questo Santo è in qualche modo associato al concetto del trionfo della luce sulle tenebre: si usa infatti in questo giorno benedire l’astante con due ceri accesi incrociati sulla gola. Riprova di ciò, e segno ancora più evidente, è il fatto che a Corsano viene accesa una focara in onore del Santo. Anticamente le ceneri di questi falò venivano sparse nei campi con il doppio fine di concimare e benedire il suolo.

Non bisogna dimenticare che la ‘Pestanaca’ era il primo prodotto dell’anno ad arrivare sulle tavole e sulle bancarelle delle fiere. L’attributo di primizia, unito alle sue caratteristiche morfologiche, e il quadro concettuale in cui si inseriva, non fanno che rafforzare tutte le valenze precedentemente evidenziate, e chiariscono come mai questo ortaggio sia stato caricato di queste simbologie e associato al concetto di fertilità.

La fiera che si svolgeva per Sant’Ippazio era un tempo tenuta molto in considerazione, proprio perché la prima dell’anno, e rappresentava un importante momento di aggregazione e di socialità, nonché di commercio: in questa occasione venivano venduti animali, attrezzi agricoli, semi e prodotti della terra.

La caratteristica peculiare della ‘Pestanaca giallo-viola di Tiggiano’ è che essa è sopravvissuta proprio grazie alla devozione popolare, che ha permesso che questo prodotto non scomparisse. Un legame, quello tra la ‘Pestanaca’ e Sant’Ippazio, che si potrebbe definire simbiotico e che caratterizza il prodotto con una fortissima valenza identitaria. Gli abitanti di Tiggiano sono infatti molto legati alla ‘Pestanaca’ (così come al Santo) e rivendicano fortemente la “proprietà” di questo prodotto proprio del loro territorio e appartenente alla storia del paese e di tutta la comunità.

In ultima analisi, si può certamente affermare che il cibo che mangiamo è in tutti i sensi un prodotto culturale, veicolo di significati che superano quello strettamente alimentare, dunque la valorizzazione di un prodotto si pone ed agisce su vari livelli. Salvare antiche varietà locali dall’estinzione significa in primo luogo salvaguardare la biodiversità, ma anche tecniche e prodotti che sono il risultato di secoli di osservazione e di selezione indirizzati all’ottenimento dei migliori risultati in uno specifico territorio e in specifiche situazioni biologiche, fisiche e antropiche. I prodotti alimentari trasmettono e veicolano quindi specifiche identità etnologiche, sono depositari di significati materiali e immateriali, che non possono essere veramente compresi se li si separa dalla cultura a cui fanno riferimento. Per questo motivo la salvaguardia di varietà antiche passa anche dalla riscoperta di elementi culturali e sociali che in alcuni prodotti della terra hanno trovato espressione simbolica.

Appare quindi evidente l’importanza di creare dei canali di produzione e di diffusione che garantiscano la sopravvivenza di questi prodotti nel quadro culturale in cui sono nati e nel quale si inseriscono, e dal quale non possono essere separati.

In galleria, un bellissimo contributo fotografico raffigurante la raccolta della ‘Pestanaca di Sant'Ippazio’, ricavato nell’ambito del progetto BiodiverSO.


Fonte articolo: BiodiverSO (Casaluci, 2016). 

Fonte immagini: BiodiverSO.